Ma questo non toglie che bisogna guardare con perplessità o sconforto alle illusioni degli scriventi e dei leggenti (spesso molto simili e vicini tra loro, a volte e sempre più spesso la stessa persona), che bisogna guardare alla scrittura e alla lettura come a “droghe” non poi così secondarie, grazie alle quali si può diventare certamente più intelligenti ma anche, e pericolosamente, più acquescenti all’andamento del mondo così come lo guidano i potenti, diventandone passivamente complici. Complici del tremendo andamento della storia, di questa storia. Se il verbo non si fa carne, cioè presenza e intervento nella storia per renderla migliore, per riscattarne la tragedia, è grande il rischio che rimanga inerte chiacchiera, ciarla, evasione. E, a ben guardare, colpa.

Ho scoperto per puro caso questo libro di Goffredo Fofi, L’oppio del popolo, uscito nel 2019 con la piccola casa editrice Elèuthera. Una volta lo si sarebbe chiamato un pamphlet e si tratta in realtà di un volume densissimo che tocca un tema fondamentale – anche se del tutto trascurato dai media – dei nostri tempi: che cosa rappresenta la cultura nelle società avanzate, quelle in cui più alto è il livello medio di istruzione, più ampia la fruzione di un’offerta culturale varia e diffusa? Cinema, teatro, festival letterari e filosofici, mostre e via dicendo. Per non parlare di una produzione editoriale enorme e che lascia un po’ perplessi se si pensa che nelle classifiche di lettura relative all’area Ue l’Italia si trova in “zona retrocessione”.

Fofi fa un conteggio approssimativo di quanti compongono il ceto intellettuale del Paese, o meglio, come dice l’autore, di quanti “vivono di cultura”: sono più di tre milioni di persone, tra insegnanti, giornalisti, blogger, impiegati di case editrici e agenzie di comunicazione, artisti, dipendenti di enti pubblici o privati che operano nel variegato mondo delle attività culturali. Una “forza lavoro” non indifferente che corrisponde ma non copre del tutto il vasto ambito dei “consumi” culturali.

Ma questi milioni di individui, e, più in generale, tutti i cittadini che conferiscono alla cultura un ruolo fondamentale nella propria vita – che la considerano un valore – ne fanno anche uno strumento di lotta per riparare alle ingiustizie del mondo? La risposta, evidentemente, è no.

Tra le conseguenze della globalizzazione – e della sua sorella gemella, la digitalizzione – c’è per Fofi la dilatazione della figura dell’intellettuale.

La scolarizzazione ha reso tutti “intellettuali” e quasi tutti “artisti”, le singolarità si perdono nel mare magnum della chiacchiera giornalistica, universitaria, liceale, pubblicitaria, politica, sacerdotale – tutti imbonitori di qualcosa, e il “pegno” non è più la libertà delle culture e la giustizia di classe, nell’impastarsi e imabastradirsi delle classi, ma esclusivamente la propria affermazione, la propria sopravvivenza: il successo e il denaro.

Esiste insomma – e a mio parere è difficile da negare – un rapporto inversamente proporzionale tra consumi culturali e “impegno” di chi essi alimenta: poca o nulla partecipazione politica, scarsa voglia di lottare per i diritti civili, estrema flessibilità quando si parla di moralità individuale e collettiva.

Quella di cui parla Fofi non è la “tentazione di esistere” di un famoso libro di Cioran, ma la tentazione del nichilismo, che scaturisce dal “riconoscere che non c’è più niente da fare, che il mondo ha preso una china irreversivibile, che non ci sono più alternative credibili, speranze da proporre, lotte nelle cui possibilità di sucesso si può ancora credere”.

Il libro contiene anche una critica fortissima alla civiltà dei media, divenuta debordante con l’avvento di internet e di tutte le sue appendici, social in testa, che alla fine servono ad alimentare il narcisismo universale e a sfogare, soprattutto nei giovani, frustazioni e ambizioni destinate a non approdare a nulla. A imporre, in fin dei conti, modelli di vita che non sollecitano all’impegno collettivo ma all’individualismo più sfrenato, del tutto indifferente a ciò che ci circonda.

Catastrofismo, pessimismo cosmico di un uomo che è nato prima della seconda guerra mondiale? Non direi, ma vorrei tornare sull’argomento con ulteriori riflessioni, soprattutto su quella che considero una società del tutto depoliticizzata. Per ora mi fermo qui. (h.)

Leggi anche:

Su Goffredo Fofi: https://hoppega.wordpress.com/2018/05/01/toto-uno-e-bino/

Il Novecento di Mario