Non mi meraviglia che sulla quarta di copertina dell’ultimo volume dell’Amica geniale si citino esclusivamente recensioni di testate americane. E’ notorio il successo oltreoceano della tetralogia ed è probabile che già si stiano scrivendo tesi di laurea su quanto tale successo abbia contribuito a farne un caso letterario anche entro i confini patrii.

Certo è che quella della Ferrante è una narrativa “all’americana”, serrata, densa di fatti, evenemenziale si direbbe in storiografia. Una prosa lineare, semplice, e quindi traducibile senza grandi “tradimenti”. Il racconto omodiegetico (nel quale l’io narrante è anche protagonista della storia) è un ulteriore propellente, nel senso che accentua la visceralità della narrazione.

Si può dire di tutto. Che si tratti di un feuilleton, di un ottocentesco romanzo d’appendice, che lo stile sia un po’sciatto. Un librone poco amato dai critici di casa nostra (ma anche lì bisognerebbe avere tempo per fare le dovute ricerche bibliografiche), abituati al romanzo psicologico, autoreferenziale, denso di elucubrazioni, oppure ispirato a una tardiva “prosa d’arte” o a un postmoderno d’accatto.

Ma poi, alla fine, se è vero come è vero che al giorno d’oggi contano solo i denari, i libri bisogna venderli. E, da questo punto di vista, nonostante ospitate televisive e vetusti premi letterari di dubbia credibilità, il piatto piange. Invece la Ferrante vende eccome e già questo per i nostri intellettuali è un vizio di forma.

Comunque sia, terminata la lettura delle migliaia di pagine dell’Amica geniale, mi sento di dire che qui siamo di fronte a un trattato di sociologia – sotto forma di romanzo – di grandissimo spessore. E con questo non intendo assolutamente sminuirne il valore letterario.

Il percorso di Lila e Lenù dagli anni Cinquanta fino a valicare il nuovo millennio è pari pari il cammino del nostro Paese. Nel romanzo c’è tutto ma non c’è troppo. Chi ha la pazienza di leggere i quattro volumi e di rimuginarli poi con attenzione si renderà conto che nella continua dialettica tra le due protagoniste c’è la dialettica tuttora irrisolta dell’Italia del dopoguerra.

Proletariato e borghesia, ricchezza e povertà, istruzione e atavica ignoranza, nord e sud, ascesa sociale e impossibilità di attuarla, politica alta e miseria partitocratica, Stato assente e ruolo suppletivo della criminalità, organizzata e non. Senza contare la centralità nel romanzo di Napoli, capitale ormai defunta ma sempre caleidoscopio di ciò che c’è di buono e, soprattutto, di cattivo, nella società italiana.

E per adesso ci fermiamo qui. Alla prossima. (h.)